Svegliarsi una mattina e scoprire di essere citati in una traccia degli esami di maturità è certamente una bellissima emozione, e sarà per sempre un bel ricordo. E’ anche uno dei misteri della professione del giornalista. Per chi scrive è infatti impossibile immaginare e/o intercettare l’onda lunga che può avere un articolo, in particolare poi se questo è diffuso su internet dove le parole non muoiono mai. Così può capitare anche che un articolo scritto diversi mesi fa si trasformi all’improvviso nell’elemento di una traccia rivolta a migliaia di studenti.
L’articolo a cui mi riferisco – citato nella traccia di maturità – è stato scritto per il sito del Sole 24 Ore nella primavera del 2013 e si intitola “Ecco perché il Pil non rende felici“. L’articolo – suddiviso in otto slide – culmina con la potentissima citazione di Robert Kennedy, il fratello del presidente ucciso John Fitzgerald, che nel 1968 in un discorso pubblico dichiarò entrando per sempre nella storia: «Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni terreni. Il nostro Pil ha superato 800 miliardi di dollari l’anno, ma quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, ed i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini.Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il Pil non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani».
E’ fantastico che la commissione dei docenti che ha scelto le prove per gli esami di quest’anno abbia deciso di inserire la citazione di Kennedy in una delle tracce. E’ fantastico che questa potente frase possa ora tornare a trasmettere tutta la sua energia perché sottoposta alla nuova generazione di studenti. Non conosco chi abbia elaborato la traccia ma lo ringrazio pubblicamente perché qui non si tratta solo di un testo d’esame. Rilanciando il tema nel dibattito pubblico – e sottoponendolo all’attenzione della generazione chiamata a rappresentarci nel futuro – torna a brillare la speranza di poter abbandonare il Pil come unico misuratore del benessere. Perché il Pil, come ha dichiarato lo stesso Simon Kuznetz – colui che nel 1934 lo ideò – “non è in grado di quantificare benessere e felicità”. Non può farlo perché il Pil è la fredda somma della domanda di beni e servizi degli attori economici di un’area (famiglie, imprese, Stato e domanda estera). Non tiene conto della distribuzione del reddito, della reale qualità della vita.
Dispiace però constatare che a distanza di oltre 80 anni dalle parole di Kuznetz e a una cinquantina da quelle di Kennedy, il Pil – come misuratore unico del benessere – anziché ridimensionarsi si sia rafforzato a tutto spiano. Tanto che oggi influenza gran parte delle decisioni politiche. I vincoli di bilancio – che impediscono ad esempio ai Paesi dell’area euro di attuare azioni espansive durante la crisi economica contravvenendo al buon senso e all’Abc della dottrina economista stessa – sono stabiliti proprio in funzione del Pil (il deficit/Pil non può superare il 3%, etc.). Di esempi di “utilizzo distorto del Pil” ce ne sono a bizzeffe. Come quello che vede la Cina considerata ormai come la seconda economia del pianeta (e proiettata addirittura al sorpasso sugli Stati Uniti nz\el giro di 10-15 anni). Questa classifica è frutto ancora una volta dell’utilizzo del mantra del Pil. Basterebbe andare un po’ più in profondità e analizzare il Pil pro-capite (ovvero la divisione del Pil complessivo per il numero di abitanti di un’area economica) per ridimensionare la portata dello sviluppo cinese, dato che il Pil pro-capite cinese (13mila dollari l’anno) è la metà di quello della tanto bistrattata Grecia (26mila dollari).
Mettere in discussione il Pil come standard unico è un percorso a mio avviso inevitabile se vogliamo ambire a vivere un futuro più prospero. Ci ha provato qualche anno fa l’Istat lanciando il Bes, l’indice che misura il Benessere equo e sostenibile, ma francamente quanti ne hanno mai sentito parlare? Ci sono altri importanti indicatori, come l’indice Gini, che misura il livello di disuguaglianza sociale nella distribuzione della ricchezza. Ma anche in questo caso temo che in pochi lo conoscano.
La verità è che indicatori alternativi e più equilibrati del Pil non mancano ma finché uno di questi non verrà inserito nei trattati che contano, resteranno delle interessanti basi statistiche, ma niente più. Per vivere in un mondo migliore, in fin dei conti, basterebbe inserire dei nuovi paletti alle regole nazionali e internazionali. Basterebbe, ad esempio per ciò che riguarda l’Europa, aggiornare i trattati di Maastricht e Lisbona inserendo una regola che preveda delle sanzioni non solo a quei Paesi che sforano il parametro deficit/Pil ma anche a quelli che dimostrano un elevato livello di disuguaglianza sociale. Purtroppo questo non accade e oggi nei trattati che contano l’unico standard utilizzato resta il Pil, o Gdp (Gross domestic product) come lo chiamano in inglese.
Se il Pil continuerà ad avere il monopolio tra gli standard di confronto di ricchezza e benessere degli Stati c’è il rischio di vedere amplificati in futuro gli attuali nei della società sviluppata contemporanea, a mio avviso sintetizzabili in questi tre punti:
- l’eccesso di capitalismo e di deregolamentazione stanno accentuando il divario tra ricchi e poveri nelle società sviluppate;
- la finanza, nata per dare una mano all’economia reale, ha preso il sopravvento e nelle proporzioni attuali è diventata estremamente pericolosa (i titoli derivati valgono oltre 10 volte il Pil del pianeta);
- la globalizzazione eccessivamente deregolamentata sta consegnando nelle mani di alcune multinazionali più potere di quanto ne abbiano alcuni Stati con il rischio di un’ingerenza crescente nel sistema legislativo e dei diritti sociali degli stessi.
Se vogliamo un futuro migliore non potremo fare comunque a meno del Pil (perché è necessario avere uno standard di confronto tra più Paesi) ma dovrà necessariamente essere affiancato da altri parametri nei trattati che oggi impongono obblighi sovranazionali ai Paesi. Perché a distanza di 50 anni, sfido chiunque a sostenere che Kennedy non avesse tremendamente ragione.