L’Italia è in questo momento un criceto che gira in una ruota e non riesce a invertire il loop infinito in cui è entrata. Vecchi trattati europei (compresi gli aggiornamenti recenti e firmati trasversalmente dalla maggior parte delle forze politiche a grande maggioranza come nel caso dell’introduzione in Costituzione del principio del pareggio di bilancio nel 2012) ci impongono anche nelle fasi di recessione (e quindi anche in cinque degli ultimi sette anni quando il Pil italiano è arretrato) di non sforare il deficit/Pil al 3%.
I numeri indicano che stiamo facendo i compitini meglio di tutti i Paesi colpiti dalla crisi dell’Eurozona (quelli che un tempo venivano chiamati Pigs, ovvero Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e meglio di tanti altri, come ad esempio la Francia, seconda economia dell’Eurozona. E, uscendo per un attimo dall’area valutaria, anche molto meglio di Regno Unito e Stati Uniti.
Questo grafico ci dice infatti che dal 2007 (quando nell’Eurozona è arrivato lo shock esterno della crisi dei Paesi subprime) al 2014 l’Italia ha generato un deficit/Pil cumulato del 26%. Decisamente meno di Irlanda (80%), Grecia (65%), Spagna (56%) e Portogallo (46%). A parte i Pigs, l’Italia ha fatto molto meno deficit di Giappone, Usa e Uk che hanno quindi reagito alla crisi internazionale alzando la leva del deficit.
Non solo, osserviamo questo altro dato, relativo al saldo primario, ovvero alla differenza tra le entrate (tasse) e le uscite (spesa pubblica) degli Stati dell’Eurozona dal 2007.
Da quando è scoppiata la crisi l’Italia è il Paese dell’Eurozona che ha generato il maggior saldo primario, ovvero il Paese in cui le entrate (tasse) hanno superato più di tutti la spesa pubblica. Un saldo primario attivo equivale algebricamente alla sottrazione di ricchezza alla collettività. Una misura restrittiva che può essere adottata in periodi di espansione (per evitare meccanismi iperinflattivi) ma dalla dubbia validità macroeconomica se attuata in tempi di crisi. Questo dato è la sintesi grafica dell’austerità, che l’Italia ha praticato più di tutti e proprio durante gli anni della crisi. Non è quindi un caso se in questi anni l’Italia è risultato il Paese che ha perso più di tutti, se si esclude il crollo della Grecia, in termini di Pil reale.
Anche adesso, molti plaudono alla ripartenza dei Pigs nel 2014. A parte i numerosi squilibri esterni che questi Paesi presentano (il che rende la loro ripartenza guidata a breve termine dalla svalutazione interna adottata ma fragile nel medio periodo) possiamo notare che c’è una bella differenza per il Pil di un Paese se questo utilizza la leva fiscale del deficit governativo più degli altri. Ad esempio nel 2014 la Spagna chiuderà con un deficit/Pil del 6% contro il 3% italiano. In questo modo è molto più semplice portare il Pil a +1% per la Spagna che non per l’Italia (che dovrebbe arretrare ancora tra lo 0,2 e lo 0,4% secondo le ultime stime).
Quando una pianta è sana e bagnata non c’è bisogno di darle altra acqua (altro deficit) perché c’è il rischio che quella pianta muoia per troppa acqua (iperinflazione). Ma quando una pianta è secca e arida (come lo è l’Italia dal 2007 senza grandi interruzioni di sorta) è giusto continuare a privarla dell’acqua necessaria (altro deficit) per ridarle vita? Il pareggio di bilancio e il principio annesso di un deficit strutturale dello 0,5% non faranno altro che aggravare il quadro. Senza un cambio di rotta e senza maggiore flessibilità che aiuti i Paesi in difficoltà a ripartire con nuova acqua (come hanno fatto finora i Pigs, Giappone, Stati Uniti e Inghilterra ininterrottamente dal 2007) è davvero difficile ripartire. E questo al di là delle riforme di giustizia e di riduzione delle tasse alle imprese che restano ugualmente prioritarie. I numeri fin qui elencati dimostrano che il “bonsai Italia” ha bisogno di acqua. Se continua a non essere innaffiato a sufficienza a suon di saldi primari attivi che sottraggono ricchezza alla comunità anziché fornirla, il bonsai rischia di morire, di deflazione e deindustrializzazione.