Quando si parla della crisi italiana (si avvia al terzo anno consecutivo di recessione, sarebbe il quinto anno di recessione in sette anni, nel 2015 secondo Moody’s non crescerà) ci si divide in due poli:
– la gran parte ritiene che questa crisi strutturale sia dovuta a colpe interne (evasione, corruzione, giustizia lenta, tassazione sulle imprese e mentalità semi-borbonica del fregare il prossimo se si può);
– una minoranza crescente ritiene che l’Italia sia in crisi strutturale SOPRATTUTTO per cause esterne, legate al far parte di un’area valutaria e di un’unione europea che, basandosi su trattati scritti 20 anni fa e aggiornati nel tempo sullo stesso modello concettuale, non funziona. A questa minoranza si è aggiunto anche Romano Prodi che negli ultimi anni pare stia cambiando idee su molti punti. “Di fronte a una sorta di dottrina astratta tedesca e di alcuni altri paesi si è continuato ad affrontare la crisi raccontando balle, dicendo che era un problema di riforme interne”.
E’ una questione di pesi. C’è chi dà maggior peso alle colpe interne, chi invece a quelle esterne. Io appartengo – e i lettori di questo blog lo avranno da tempo capito – alla seconda categoria. E mi pare doveroso cercare di spiegarlo in termini semplici. Sia ben chiaro, è molto più facile stare nella prima parte. Perché richiede meno studio. E si presta molto di più al chiacchiericcio nei talk show e alla gazzarre che fanno ascolti.
Chi, come me e un elenco interminabile di economisti, ritiene che i fattori esogeni prevalgono nella scala delle cause dell’attuale crisi strutturale dell’economia italiana rispetto a fattore endogini, lo sostiene, molto semplicemente, perché sarebbe oltremodo presuntuoso pensare che l’Italia – per quanto sia la terza economia dell’Eurozona – possa avere la forza di marciare a vele spiegate in questa Eurozona pur migliorandosi al suo interno e risolvendo problemi pluriennali come cattivo funzionamento della giustizia e alta tassazione sulle imprese sui quali credo si debba intervenire subito.
Sarebbe troppo presuntuoso credere che bastino queste riforme a ridare slancio a un Paese che opera nell’ambito di un assetto sovranazionale (l’Ue sulla base degli attuali trattati) che non consente ai Paesi in crisi di adottare né una politica monetaria né una politica fiscale mirate. Un assetto che giudica i Paesi principalmente sulla base di quanto esportano, al di là degli squilibri esterni. Un assetto che consente a certi Paesi di svalutare il cambio reale impedendo ad altri di reagire a shock esterni senza dover impoverirsi. Un assetto che ignora le bolle del debito privato che vi si gonfiano all’interno. Un’area in cui la Banca centrale non sa a questo punto come aumentare la base monetaria. Dove vengono considerate più affidabili banche che acquistano titoli derivati piuttosto che banche che prestano alle imprese. Dove il trauma dell’inflazione oltre il 2% prevale al dramma della disoccupazione a doppia cifra. Eccetera, eccetera.
Ho estrema fiducia nell’Italia ma non a tal punto da pensare che diventi da un giorno all’altro – pur migliorandosi all’interno – un tale Eldorado da essere in grado da sola di vincere le inefficienze storico-economiche dei trattati e dei vincoli che ha firmato. Il Pil dell’Eurozona vale 15mila miliardi contro i 1.600 dell’Italia. Presa singolarmente l’Italia è una grande forza potenziale (il Pil raggiungerebbe i 2mila miliardi se il tasso di disoccupazione si normalizzasse al 6-7%) ma non a tal punto da poter crescere indipendentemente dai gravissimi squilibri fomentati da trattati europei che “maltrattano” quotidianamente la maggior parte dei Paesi che vi hanno aderito.
Per questo, mentre bisogna cercare di migliorarsi all’interno e subito, non si può riconoscere che la priorità assoluta resta quella di modificare regole europee che sono implose da tempo.