Il governo sta lavorando per inserire, dal prossimo anno, il Tfr in busta paga. “Questo si tradurrebbe in un raddoppio dell’operazione 80 euro” ha detto il premier Renzi che domani incontrerà sindacati e imprese per andare avanti con il tema. La proposta non ha alcuna ragione d’esistere, però, per almeno quattro motivi.
1) Affronta la crisi attuale dal lato sbagliato. Alla domanda (famiglie e imprese) vanno date certo più munizioni per far tornare l’economia a girare. Ma in questo modo si sottrarrebbero soldi alle piccole e medie imprese (10-12 miliardi) per darli ai lavoratori. Insomma, un gioco delle tre carte che si rivelerebbe a somma zero dal punto di vista dell’offrire nuove risorse alla domanda (ciò che viene tolto alle imprese andrebbe ai lavoratori). In sostanza una crisi della domanda, come quella attuale, non si combatte sottraendo risorse a una parte della domanda (imprese) per trasferirle ad un’altra (famiglie). Sarebbe molto più virtuoso dare nuove risorse alle imprese (riducendo drasticamente il cuneo fiscale) in modo tale che queste possano assumere e aiutare così le famiglie. Se le si priva di una parte del Tfr (tanto più in questa fase di crisi economica) si toglie alle aziende una percentuale X da destinare agli investimenti, soprattutto nel contesto attuale in cui lo spread reale (non quello sui titoli di Stato ma quello tra i tassi che vengono applicati sui finanziamenti alle imprese) è di 300-400 punti (in più a carico delle imprese italiane rispetto a quelle tedesche). Bisogna capire, però, se i soldi “sottratti” alle imprese ritornino attraverso finanziamenti Bce alle imprese a un tasso inferiore rispetto all’1,5%+75% del tasso di inflazione pagato dalle aziende come forme di rivalutazione del Tfr. In questo caso la manovra si prefigurerebbe come un indiretto finanziamento Bce ai dipendenti. E quindi avrebbe una prospettiva diversa e bisognerebbe rivalutarne gli effetti.
2) Stando però alle informazioni attuali quello che difatti, dal punto di vista della domanda, si rivelerebbe inizialmente un gioco a somma zero potrebbe però diventare anche un gioco a somma negativa con il passare del tempo. Innanzitutto perché le imprese con meno risorse farebbero fatica a mantenere il trend di produzione attuale. E poi perché è ipotizzabile che non tutti i lavoratori riescano a far fruttare la somma ricevuta in anticipo come Tfr (liquidazione). E’ ipotizzabile, complice la crisi, avversità generali e differenti approcci psicologici degli individui (non tutti sono previdenti e guardinghi) che una percentuale di lavoratori possa rischiare di depauperare il Tfr anticipato, arrivando poi alla pensione con meno risorse per affrontare il difficile passaggio alla terza fase della vita. Reso già difficile dal passaggio del sistema pensionistico dal modello retribuitivo all’attuale sistema contributivo in base al quale è previsto che il saggio di sostituzione (rapporto tra assegno pensionistico e ultima retribuzione) non vada oltre il 50%. In sintesi, per i pensionati futuri è già previsto un dimezzamento del tenore di vita. Se a ciò aggiungiamo che qualcuno potrebbe non poter più contare sul risparmio del Tfr, il disagio sociale per alcuni futuri pensionati sarebbe destinato ad aumentare con la manovra dell’anticipo del Tfr in busta paga. Chi è a favore del “Tfr in busta paga” indica che aumenterebbe la libertà personale dando ai singoli individui la libertà di disporre ora di una quota che comunque spetta a loro. Qui entriamo in un campo ideologico e il dibattito resta aperto. Si può però rispondere che parlare adesso di aumentare la libertà personale su un campo minato come quello pensionistico rischia di essere fuorviante (a quel punto per lo stesso principio bisognerebbe eliminare il concetto di irreversibilità sulla quota di Tfr versata ai fondi di categoria). Il discorso – che resta ideologico – potrebbe essere riaperto non in tempi di crisi, ma in fasi di espansione economica quando una sottrazione del Tfr potrebbe essere vista come una misura restrittiva, più in linea con un ciclo economico in surriscaldamento. Parlarne ora, invece, suona invece come giocare una carta disperata, dimostrando di non voler o non poterne usare altre (come la riduzione del cuneo fiscale o la detassazione sugli stipendi dei nuovi assunti).
3) La riforma, inoltre, stride anche con l’obiettivo dichiarato da Renzi: “Il lavoro è la nostra emergenza”. Molto semplicemente, se si sottraggono soldi alle imprese chi è che assume? Come si crea nuovo lavoro? Ancora una volta ci troviamo dinanzi a dichiarazioni che si contraddicono da parte del premier. Dire tutto e il contrario di tutto – come insegnano i professori di marketing al primo anno di università – è una strategia molto efficace per attirare il numero più ampio di consensi. Ad esempio, quando Renzi dice “Non ci faremo dettare i compitini dalla Germania” conquista il consenso degli elettori (e sono in forte crescita) critici nei confronti della Germania e della sua ostinatezza nell’imporre ai Paesi del Sud Europa politiche di austerity in tempi di crisi, in barba all’Abc della macroeconomia che prevede l’esatto contrario. Ma allo stesso tempo Renzi dice “Rispetteremo la soglia del 3% sul deficit/Pil”. Con questa dichiarazione il premier conquista e/o mantiene il consenso di quella parte di elettori che crede che l’Italia sia in crisi esclusivamente per colpe proprie (corrotti e fannulloni) e non soprattutto per gli squilibri macroeconomici che la Germania ha creato attraversi trattati europei scritti su misura della propria economia. Due frasi con cui il consenso vola (conquistati anti-tedeschi e “quelli che l’Italia è solo fannullona e deve essere commissariata” in un colpo solo). Ma se si prova a mettere insieme queste due frasi, si capisce che non possono convivere. Perché c’è solo un modo per non farsi dettare in questo momento i compitini dalla Germania. E cioè – come sta provando a fare la Francia – sforare il 3%. Allo stesso tempo non possono tecnicamente coesistere frasi del tipo “Il lavoro è la nostra emergenza” e “mi piacerebbe che dal prossimo anno i soldi del Tfr andassero in busta paga”. L’una esclude l’altra, ma entrambe acchiappano consensi.
4) E siamo al quarto e ultimo punto. Far passare l’anticipo del Tfr in busta paga come una misura paragonabile a quella degli “80 euro” è un errore. Gli 80 euro, in teoria, sono concessi attingendo a risorse esterne rispetto al bilancio delle famiglie (anche se l’aumento delle tasse sugli immobili e dell’Iva secondo molti ha trasformato questa misura in un altro gioco a somma zero per le famiglie beneficiare degli 80 euro, ma non a somma zero per i consensi elettorali). Tuttavia, pur ipotizzando che gli 80 euro siano effettivamente un surplus per alcune famiglie, in ogni caso non vanno confusi con l’anticipo del Tfr, che già appartiene ai lavoratori. Quindi accostare “80 euro” ad “anticipo del Tfr in busta paga” è una forzatura che ancora una volta sconfina nel marketing politico, e non nell’interesse del Paese. Occhio, non ci si può distrarre un secondo.
5) Come suggerisce un lettore, c’è poi un quinto motivo: l’anticipo del Tfr in busta paga riguarderebbe solo i lavoratori dipendenti. Risulterebbero esclusi i 6 milioni di autonomi + i 4 milioni di imprese individuali, come accaduto per gli 80 euro. Senza dimenticare i disoccupati.