Se osserviamo i tassi nominali che pagano i governi per rimborsare gli interessi sul debito pubblico emesso (prendendo in considerazione le quotazioni sul mercato secondario) otteniamo dei dati apparentemente assurdi. Come quello che vede il Giappone avere il più alto debito/Pil del pianeta (227,2%) e allo stesso tempo il più basso tasso per rimborsare il debito in scadenza a 10 anni (tra i principali Paesi Ocse + la Cina).
Oppure c’è la Turchia che paga sui titoli a 10 anni l’8,73%. Sembrerebbe il punto di non ritorno (almeno così si diceva e in parte è accaduto nell’Eurozona) tra il 2010 e il 2012 quando Grecia, Cipro, Irlanda, Portogallo e Spagna sono stati costretti a chiedere aiuti esterni. Ma allora come mai la Turchia viaggia relativamente tranquilla (con la lira turca che si è apprezzata di circa il 10% negli ultimi mesi sul super-euro)? La classifica dei tassi nominali ci dice anche che la Repubblica ceca risulta meno rischiosa degli Stati Uniti, prima economia al mondo. Insomma, i paradossi non mancano.
Ma la risposta è più semplice di quel che sembra. I tassi nominali non sono un parametro efficiente (per quanto spesso vengano utilizzati a tale scopo) per indicare la solidità (e di conseguenza il rischio default) di un Paese. Manca un altro tassello, che si chiama inflazione e che contribuisce non poco alla determinazione dei tassi nominali. Se sottraiamo l’inflazione a questi otteniamo quello che potremmo definire “rischio sovrano netto” con forti livellamenti tra i Paesi. In questo caso si scopre che la Grecia non è poi messa così bene. Ma che l’Italia è meno rischiosa della Spagna. Ulteriore dettagli in questo articolo.