I conti dalle parti di Francoforte, dove ha sede la Banca centrale europea, non tornano. C'è qualcosa che dall'Europa devono spiegarci, magari prima delle elezioni europee di maggio. Il cerchio non si chiude sull'argomento deflazione. E' oggettivamente un pericolo per qualsiasi economia perché le ASPETTATIVE sulla deflazione (sul calo dei prezzi) fanno diminuire i CONSUMI, indebolendo produzione e DOMANDA INTERNA.
E non è più solo una minaccia se si considera che la Grecia è in deflazione da 12 mesi e il Portogallo da tre. Il dato medio dell'Eurozona (0,8%) non deve quindi ingannare perché ci sono realtà che sono già in deflazione mentre altri Paesi (tra cui l'Italia) che sono in un evidente stato di disinflazione (0,7% a febbraio).
Nelle dichiarazioni ufficiali la Bce e Draghi spesso fanno riferimento ai RISCHI di deflazione e che la politica monetaria sarà accomodante a tal punto da scongiurare tali rischi. Queste dichiarazioni sono opinabili per due motivi:
1) la politica monetaria è calibrata sul dato medio dimostrandosi invece impotente nei confronti di quei Paesi che sono già in deflazione e per i quali non viene presa nessuna misura anti-deflativa;
2) il motivo per cui non viene presa nessuna misura anti-deflativa nei confronti dei Paesi del Sud Europa è chiaro e stride con le dichiarazioni "eviteremo rischi di deflazione". Il motivo è che in questo momento la soluzione che l'Eurozona (quindi Commissione europea e Bce comprese) sta attuando per provare a colmare gli squilibri strutturali che si sono creati tra i Paesi appartenenti all'euro è proprio la deflazione dei Paesi del Sud Europa. In questo modo Grecia, Spagna, Italia e compagnia bella potrebbero recuperare competitività e colmare parte del divario perso con il Nord nei primi 15 anni di euro. In poche parole, nella dinamica dei tassi di cambi reali, se in Grecia l'inflazione adesso è -1% e in Germania è +1,3%, quest'anno le merci greche diventeranno più competitive di 2,3 punti rispetto a quelle tedesche. Lo stesso discorso vale per gli altri Paesi che stanno maturando tassi di inflazione più bassi rispetto alla Germania e quindi "svalutando" in termini reali il "cambio virtuale". Il problema è che questa strada per sistemare gli squilibri è lunghissima. E' stimato che ci vorranno almeno 20 anni, anni in cui la DOMANDA INTERNA dei Paesi in deflazione o disinflazione pare destinata a perdere voce in capitolo (e benessere).
Ed è questo il paradosso su cui oggi poggiano le istituzioni europee. Da un lato indicano che stanno combattendo la deflazione, dall'altro la stanno proponendo come soluzione per tappare le asimmetrie e gli errori del passato. O perlomeno non stanno proponendo alternative per risolvere il paradosso. In più la Bce conosce – dopo uno studio realizzato a Francoforte – che una rivalutazione dell'euro sul dollaro del 10% riduce l'inflazione dello 0,50% (50 punti base, è quello che è accaduto nel biennio 2012-2013). Quindi nel momento in cui non allenta la politica monetaria e lascia quindi rafforzare l'euro sul biglietto verde favorisce indirettamente un processo di deflazione. Ne abbiamo avuto la riprova giovedì quando la Bce non ha annunciato nessuna operazione espansiva deludendo i mercati e facendo balzare il cambio euro/dollaro da 1,37 a 1,39.
Sarebbe decisamente più semplice – e moniti in tal senso arrivano anche dal Fondo monetario internazionale – spingere anche i Paesi che hanno contribuito a creare questi squilibri inondando di capitali il Sud Europa a fronte dell'assenza di rischio cambio e di remunerazioni più alte,che in territorio nazionale, a partecipare all'aggiustamento degli squilibri. Esportando meno e curandosi un po di più della propria DOMANDA INTERNA.