L'Eurozona è in crisi da ormai cinque anni abbondanti. Da luglio 2007 – quando i mutui subprime Usa sono deflagrati contagiando anche l'Europa – tutti i grandi parametri che misurano l'andamento economico di un Paese (Pil, disoccupazione e compagnia bella) sono in peggioramento. Da allora, però, ci sentiamo spesso ripetere da grandi leader politici e finanziari che "bisogna fare dei sacrifici (adesso) per stare meglio (in futuro)". Siamo in sostanza entrati in una nuova era: quella del "bisogna star peggio per stare meglio". Proprio noi che invece apparteniamo, o ne ereditiamo i fasti, alla generazione del "si stava meglio quando si stava peggio".
E' evidente che c'è qualcosa che non quadra. La ricetta finora applicata per curare i Paesi malati è risultata finora ampiamente inefficace. E' stato scelto di applicare austerity (inasprimento fiscale + tagli alla spesa pubblica) per far quadrare i conti nel pieno di un quadro recessivo. Questo ha alimentato un ciclo di stagnazione-recessione che nessuno sa ora quando finirà. Questa ricetta è stata praticata sulla base di proiezioni ottimistiche sul moltiplicatore fiscale che misura di quanto impatta negativamente sul Pil un taglio alla spesa pubblica. L'ipotesi di chi ha praticato questa ricetta era: se si taglia la spesa di 100 il Pil perde "solo" 50 (moltiplicatore 0,5). Invece così non è stato. A ottobre il Fondo monetario internazionale ha rivelato l'impietoso fallimento di questa politica segnando che nei fatti il moltiplicatore fiscale è stato di 0,9-1,7 volte, molto peggio del previsto. Quindi, chi ha tagliato 100 ha perso fino a 170 in termini di Pil.
La sostanza dei fatti ha confermato quello che 80 anni fa diceva l'economista John Maynard Keynes, ovvero: "L'austerità va praticata nelle fasi di espansione economica, non in quelle di crisi".
Eppure oggi, nonostante questo clamoroso fallimento da parte di chi ha avuto fino ad ora le redini per portarci fuori dalla crisi, ci sentiamo ancora dire "bisogna star peggio per stare meglio". Insomma, la ricetta dell'austerity continua a prevalere nelle stanze dei bottoni.
Ma, al di là degli effetti drammatici e controproducenti di questa cura, confermati dalle evidenze del moltiplicatore fiscale, questa litania non regge per almeno altri due motivi.
1) Non tiene conto di una semplice legge della natura: le piante, così da mantenerle in salute e farle crescere di più, vanno potate quando hanno troppe foglie, non quando sono secche e fragili e hanno bisogno di acqua. Così, se le radici su cui poggia un'economia vengono tranciate a colpi di austerity si rischia che la crescita futura diventi un'illusione. Purtroppo è quello che è stato fatto negli ultimi anni nell'Eurozona. E adesso nessuno può dirci con certezza se i Paesi suonati a colpi di austerità torneranno come prima, o magari più forti. Questo perché a causa delle misure repressive attuate, i tassi di disoccupazione giovanile sono balzati alle stelle (in Italia siamo al 35%, in Spagna e Grecia circa al 50%). Ciò significa che molti giovani laureati nei prossimi mesi saranno costretti ad accontentarsi di lavori meno qualificati e fra qualche anno rischieranno di smarrire competenze e professionalità acquisite con gli studi, le stesse che avrebbero dovuto far compiere il salto di qualità al Paese nei prossimi anni.
2) Il "bisogna star peggio per stare meglio" certifica nell'immediato sofferenze per la popolazione vendendo in futuro il sogno di un miglioramento. Se avessimo la garanzia che ciò accadesse qualcuno potrebbe anche sottoscrivere questo "swap con la storia", pagando l'attuale dolore con un certo beneficio futuro. Ma dato che chi promette queste certezze ha dimostrato nel rencentissimo passato di non essere infallibile (vedere il clamoroso svarione sul moltiplicatore fiscale) questa scommessa/gioco non vale la candela. Keynes, sul lungo periodo diceva: L'unica certezza è che "saremo tutti morti".
Chi ha ragione, quindi: il partito del "si stava meglio quando si stava peggio" o quello del "bisogna star peggio per star meglio"? C'è il rischio, al momento, che i numeri diano ragione al primo.