Da oltre due anni si parla a più riprese di una possibile uscita della Grecia dall'Eurozona. Il dibattito si è ufficialmente aperto a maggio 2010, a margine del primo piano di salvataggio da 108 miliardi. Da allora, con periodicità costante, via via che i rendimenti dei bond greci si sono fatti via via più stellari, l'ipotesi di un ritorno alla dracma si è fatta sempre più vivida nello scacchiere macro economico internazionale. Nel mezzo c'è stato anche un secondo piano di salvataggio, quello varato lo scorso marzo, da altri 130 miliardi di euro.
E adesso, in questo 7 maggio che profuma di nuova visione d'Europa (dopo la vittoria di Hollande in Francia e dopo il forte riscontro di partiti anti-europeisti al rinnovo del Parlamento greco) l'immagine della dracma non è mai stata così vivida.
Tanto che secondo gli analisti di Citigroup le probabilità di un'uscita della Grecia dall'Eurozona sono ormai salite al 75%. Più sì che no, insomma. E anche nell'economia reale, quella fatta di soldi veri e contratti, non sembra una chimera. Come segnala Dante Buonsanto, di Cmc markets, c'è un retroscena che allontana la Grecia dalla moneta unica. "L'ipotesi è stata paventata qualche settimana fa anche dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) delegata a offrire prestiti a tasso agevolato alle aziende dei Paesi membri per il rilancio dello sviluppo e delle infrastrutture. Infatti, in un contratto stipulato tra la Bei e la Deh, la più grande società elettrica greca è stata inserita una clausola che prevede la rinegoziazione del rimborso nel caso in cui si ritornasse alla Dracma o della fine dell'unione monetaria europea".
Due indizi fanno una prova? Ce ne sarebbe anche un terzo. A giugno il nuovo governo greco dovrà dare indicazioni alla Troika (Unione europea-Fondo monetario internazionale e Banca centrale europea) su come intende recuperare altri 11,6 miliardi tra il 2013 e il 2014 necessari per far proseguire l'ultimo programma di salvataggio da 130 miliardi, dove per "salvataggio" si intende un prestito a tasso agevolato.
Sarà necessaria una nuova, ennesima manovra di austerity? E come potrà approvarla il nuovo governo se questo sarà la rappresentazione di un Parlamento frammentato dove è imprenscindibile l'ok delle forze estremiste (sia di sinistra che di destra) che hanno trionfato alle elezioni del 6 maggio proprio perché hanno sbandierato a più riprese il loro anti-europeismo e la loro contrarietà al "ricatto" implicito nei piani di salvataggio?
E' questo il dilemma di questa nuova tragedia greca. Una tragedia che, però, potrebbe essere dimenticata a se stessa. Gli istituti di credito europei hanno già in parte smalito le perdite sui titoli greci e quindi a questo punto il rischio contagio di un eventuale addio della Grecia all'euro è inferiore rispetto al passato.
Tanto più che siamo entrati in una fase di riforme dell'impianto europeo (come il Fiscal compact che dovrebbe entrare in vigore il prossimo luglio) e quindi l'idea dell'uscita di uno Stato membro, considerata inattuabile e folle fino a qualche mese fa, oggi non pare più balzana.
Resta il fatto che lo Stato greco e i cittadini greci sono intrappoliti. Se Atene resta nell'euro son dolori a suon di austerity. Se va via, i costi di uscita sarebbero altissimi (come peraltro per qualsiasi altro membro, Germania compresa). Non resta, adesso, capire quale è il male minore.